Maestri


Josefina Robledo

Josefina Robledo Gallardo nacque a Valencia il 10 maggio 1892 e morì a Godella il 25 mag 1972 all'età di 80 anni. Iniziò a studiare chitarra con il grande Maestro Francisco Tárrega all'età di sette anni. Diede il suo primo concerto al Conservatorio di Valencia nel 1907. Nel 1914 si trasferì a Buenos Aires e si esibì in concerto in Argentina, Uruguay, Paraguay e Brasile, riscuotendo notevoli successi. Vi rimase per 10 anni, tenendo concerti e dedicandosi all'insegnamento. Nel 1924 tornò in Spagna, e tenne concerti in giro per il Paese. Dopo il suo matrimonio, che avvenne nel 1927, lasciò la carriera concertistica,  anche se non cessò mai del tutto di esibirsi in riunioni private tra amici e in concerti sporadici, sempre in omaggio al suo maestro Tárrega. Tra questi possiamo citare quello offerto a Vila-real il 20 Novembre 1952, per il centenario della nascita di Tárrega, con Pepita Roca, Daniel Fortea e Emilio Pujol, e quello tenutosi il 15 dicembre 1959 presso il Conservatorio di Valencia organizzato dalla Società Amici della Chitarra per commemorare il cinquantesimo anniversario della morte del Maestro. Purtroppo sono pochissime le registrazioni di Josefina, in quanto durante la sua vita si rifiutò di farle. In America il suo repertorio comprendeva Sor, Tárrega, Albéniz, Granados; si interessò anche alla musica indigena e popolare. Fece numerose trascrizioni (Bach, Chopin, Couperín, Rameau, come pure musicisti contemporanei) per arricchire il repertorio chitarristico del tempo. Seguì sempre gli insegnamenti del suo Maestro, per il quale aveva una grande venerazione. Dotata di una tecnica raffinata e di una apparente facilità di esecuzione, era costantemente alla ricerca della perfezione e della fedeltà sonora e musicale delle opere, alle quali il suo forte temperamento imprimeva il proprio carattere.
Quello che segue è il testo della conferenza tenuta da Josefina Robledo in occasione del concerto del 1959 a Valencia:

Signore e signori, allievi del conservatorio,

non posso sottrarmi dal fare una premessa, che per me è molto importante per giustificare e scusarmi di questo mio intervento qui. E’ un aspetto che mai credevo possibile, invadere un terreno che, se agli oratori e ai conferenzieri è come un anello al dito, a me è completamente estraneo e sconosciuto.
La “colpa” è del vostro direttore, Daniel Denuela, che mi ha pregato di portare in questa classe - che la signora Rosita Iri dirige con tanto affetto - il ricordo del mio Maestro Tárrega, che io avevo costantemente rifiutato, più per la mia naturale resistenza a una tardiva esibizione, che al proposito del vostro desiderio di avere un contatto diretto con una discepola del Maestro Tárrega.
Ha messo sempre Denuela, in primis, la figura del gran chitarrista - con tanto affetto - e al compiacere del suo entusiasmo, devo unire l'affetto e la stima che ho per lui, con la venerazione che il mio spirito sempre ha avuto per l'eccezionale figura del grande artista che fu Don Francisco Tárrega.
Nel salone di questo conservatorio di Valencia, suonarono in diverse occasioni le note della chitarra di Tárrega. In questo stesso salone ci fu la mia prima presentazione in pubblico nell'arco dell'anno 1907. Inoltre in questo salone diedi il mio ultimo concerto in pubblico - dopo un silenzio volontario di molti anni - alla commemorazione degli amici della chitarra del cinquantenario della morte di Tárrega il 15 dicembre 1959.
Questo luogo ha per me il ricordo della casa.

Non intendo parlare di ciò che Tárrega rappresentava nel mondo della chitarra, e nemmeno nel mondo musicale, né della sua vita, né della sua opera, non è questa l’intenzione.
Io vorrei parlare semplicemente della sua condizione umana, della sua figura, della sua squisitezza, del suo tatto speciale con la gente e, infine, della sua prestanza spirituale.
Poiché occorrerebbero molte ore, voglio limitarmi a parlare di alcuni momenti della convivenza con me e con la mia famiglia, che sono significativi per tratteggiare alcuni lati del suo carattere e della sua persona.
E mi perdonerete se, non fidandomi delle emozioni, ho annotato in alcuni fogli le mie idee. E vi prego di non vedere in questo gesto l'imitazione di un atto solenne e neppure un atto di petulanza, perchè quando si parla di Tárrega tutto deve essere chiaro e cordiale come egli fu in tutta la vita.
E’ difficile capire a distanza di più di mezzo secolo come andavano le cosa allora.
Per esempio ora una malattia può essere superata con mezzi tecnici e sociali che prima erano sconosciuti e che - grazie a medici, ospedali e strutture - permettono alle famiglie di continuare a svolgere le proprie normali attività quotidiane, mentre l'ammalato viene seguito dalle strutture sanitarie. Quando uno dei miei fratelli si ammalò, dovemmo trasferirci tutti in un paese di collina a Xirivella e lì allestire un quartiere generale e adattare tutta la vita agli avvenimenti spiacevoli, supplendo con l'amore ciò che la scienza non era in grado di fare.
Fu allora che mia madre, per evitare al malato la tortura del riposo obbligato in piena gioventù, pensò di mettergli in mano una chitarra e affiancargli un professore che gli insegnasse i segreti dello strumento e allo stesso tempo suonasse per lui, aiutandolo a sviluppare la sua passione. La morte di mio fratello seminò dolore nella famiglia e tutti gli strumenti rimasero in silenzio, finché un giorno il professore, avendo ben compreso la realtà, riuscì a formare con i fratelli un trio. E visto che io ero la più piccola, scelse per me la chitarra, in parte perchè il suo suono mi aveva particolarmente colpito (aveva creato in me un'ineffabile risonanza) e in parte come caro ricordo di mio fratello che tante volte avevo sentito suonare.
Il trio musicale che formammo, incoraggiato innanzitutto dai miei genitori, studiava, leggeva ed eseguiva opere di una certa importanza fino a che le opere che si suonavano per lunghe stagioni a Valencia giunsero al nostro trio che intanto cresceva grazie all'elogio sia di amici che di gente estranea che ci incoraggiava.
Forse una predisposizione speciale, o una musicalità innata, mi fece progredire abbastanza sullo strumento e fece sì che io mi distaccassi un po'; questo fu il motivo per cui mi spinsero a intraprendere soprattutto opere per chitarra sola, che d'altra parte a me piacevano molto. 
E fu così che Tárrega, in una delle sue numerose visite a Valencia, conobbe mio padre che gli raccontò di avere una figlia appassionata di chitarra e gli disse che gli sarebbe piaciuto sapere se la figlia era in condizioni di proseguire negli studi. Allora Tárrega espresse il desiderio di sentirmi e diede un appuntamento a mio padre per il giorno successivo, dopo un suo recital. Mio padre allora tornò a casa entusiasta e ci raccontò quanto il Maestro fosse stato gentile e umile nell'esaudire le sue richieste. Allora la casa si riempì di giubilo, emozione e anche di speranza.

Mai dimenticherò quel concerto di Tárrega. Il Maestro, circondato da ammiratori, conversava affabilmente con tutti.
Era alquanto alto. La sua barba ben curata e la sua abbondante capigliatura gli dava una fisionomia molto personale, esaltata dal suo sguardo che dietro a un rilucente paio di occhiali aveva un misto di interrogazione e curiosità per tutto, anche se immediatamente si notava la difficoltà di una patologia oculare che lo disturbava.
Mio padre e io, affiancati, lo contemplavamo nella lontananza di quella sala, confusi tra gli amici avidi di ascoltarlo.
Vidi come prendeva la chitarra, lentamente tra le sue mani, e come cominciò a preludiare soavemente e come subito cominciarono a germogliare note chiare, pulite, definite, le più dolci che io abbia mai ascoltato. E mio padre e io ci stringevamo le mani dall'emozione di poter ascoltare tale meraviglia.
Non saprei dire se quel concerto durò molto o durò poco perchè ascoltandolo si perdeva la nozione del tempo.
Quando finì, gli applausi si confondevano con le felicitazioni e gli abbracci, e poco a poco tutto andò facendosi silenzio e tutto sembrò essere finito.
Fu allora che Tárrega, indirizzandosi al pubblico e come cercando con lo sguardo mio padre, disse: “Ora vediamo la piccola chitarrista”.
Sorprese tutti, compreso noi che pensavamo che il Maestro, forse, non si sarebbe ricordato dell'impegno.
Mi sedetti su una sedia con la chitarra. Il Maestro, da lontano, mi contemplava col suo sguardo incerto per la lontananza, la penombra accentuata dal fumo dei sigari.
Io mi sentivo sospesa nell'aria dall'emozione, davanti a chi mi aveva provocato un'emozione tanto profonda. Infine domandai qualcosa di insolito.
“Che suono?” E lui disse: “Suona ciò che vuoi”.
E io, con l'incoscienza dei bambini, e non ricordandomi del suo autore, cominciai a suonare Capricho Arabe, proprio di Tárrega, tra il mormorio sordo della sala....suonai altre cose... e il Maestro che mi ascoltava, in silenzio, si avvicinava sempre più, con curiosità, finché al termine lo sentii accanto alla mia sedia e voltandosi verso mio padre gli disse: “Tanta attitudine vedo in questa bambina che da ora mi considero il suo maestro”

I rumori aumentarono e lui disse, rivolgendosi a me dolcemente: “Domani ti aspetto nel mio hotel”. Perdonatemi se dirò tutto come è successo e se lo dirò senza alcun rimpianto.
Perciò non dovete vedere in queste parole auto elogio, né desiderio di notorietà. Alla mia età tutto questo non ha alcun valore, cosicché continuerò in questo racconto.
La mattina seguente, nell'hotel, il Maestro mi ricevette con la sua abituale bonaria cortesia e cominciò la lezione dicendomi: "La prima cosa da fare è tagliarti le unghie. Poi dimenticherai tutto quello che hai suonato, come se non avessi mai tenuto in mano una chitarra".
"Sì, signore" risposi io disposta a fare quanto mi ordinava. Mi misi all'opera. Io stessa avevo una forbicina. Mi tagliai le unghie accuratamente.
Lui mi mise nella posizione corretta e mi dette, dopo alcune istruzioni, alcuni studi avvertendomi: "Anche se con questi ne avrai per alcuni giorni, se vuoi puoi tornare domani".
E l'indomani, alla stessa ora, ero lì, diligente, con tutta la lezione imparata, e talmente di suo gusto che fece altri piani più urgenti di insegnamento.
Giornalmente seguii le lezioni col Maestro fino a che dovette partire da Valencia.
Mio padre, prevedendo che l'assenza potesse essere lunga, gli chiese indicazioni e Tárrega gli indicò la convenienza di studiare, sola, tutto quello che avevo imparato, finché lui non avesse ricominciato le sue lezioni.
Nella residenza di Don Francisco, a Barcellona, in cui mi precipitai in compagnia di mia madre, potei vivere nel suo ambiente familiare. Sua moglie, i suoi fratelli, i suoi figli, tutta la sua famiglia mi accolsero con affetto e potei avere la soddisfazione di considerarmi quasi una dei tanti membri della famiglia Tárrega, con un affetto che è durato per sempre. Quando fummo di ritorno a Valencia, Tárrega ebbe un duro attacco alla sua salute. La convalescenza fu lunga e poco tempo dopo scrisse a mio padre chiedendogli di cercargli un alloggio per passare un po' di tempo a Valencia.
Mio padre rispose per telegrafo, dicendo che lo considerava già in casa nostra. E Tárrega venne a Valencia e nella nostra casa visse per un lungo periodo.
Noi, allora, vivevamo in un piccolo piano terra, nella piazza di San Bult.
Poiché l'appartamento era modesto, ci accomodammo in modo che il Maestro avesse la sua alcova indipendente e anche una stanza dove ricevere visite. Questa convivenza familiare fece si che conoscessi molto meglio il Maestro.
Quando arrivò a casa, mia madre si incaricò di ordinare la sua roba, del suo cibo speciale, dei mille dettagli che erano tanto necessari a un malato.
Per dare un'idea della nostra dedizione, vi dirò che Tárrega patì una crudele malattia agli occhi. Ci vedeva appena. Il piano di cura che il medico gli aveva prescritto prevedeva il lavaggio oculare molto frequente. Io mi incaricai di essere la sua infermiera.
Vi racconterò che nelle palpebre crescevano alcune ciglia inopportune all'interno e con delle pinzette dovevo prenderle con una cura estrema per non provocargli danni.
Don Francisco, dopo ogni seduta, lodava il mio modo di trattarlo e si scioglieva in parole di gratitudine.
Nel trattare la gente Don Francisco era l'amabilità in persona. A tutte le persone con cui trattava diceva frasi amabili, anche se a volte sapevamo che interiormente non era nello stato d'animo di prodigarle.
Se gli presentavano un futuro chitarrista, lui lo elogiava, lo allettava e gli prometteva che più avanti avrebbe avuto molto piacere di essere testimone dei suoi progressi, etc, etc, in un gesto di carità infinita.

Al risveglio, a mattina avanzata, la prima cosa che faceva il Maestro era prendere a tentoni la chitarra e, ancora nel letto, quasi senza aprire gli occhi, cominciava a suonarla.
Allora noi restavamo silenziosi, vicino alla sua stanza, godendo di quelle primizie così belle.
Quando decideva, chiamava ed ero io che entravo a lavargli gli occhi.
Dopo colazione, se non aveva visite, usciva. Erano molti i giorni in cui non ritornava fino al pomeriggio.
Terminata la giornata, dopo cena, invariabilmente ci mettevamo insieme a suonare, uno di fronte all'altro. Cominciavamo con esercizi di digitazione, sincronizzando i movimenti, esercizi che andavano ampliandosi ogni volta di più. Così mi faceva suonare alcune ore e continuavamo ancora per altre ore. Poi mi chiedeva: “ti stanchi?”. Io non mi stancavo, ma la maggior parte delle volte gli rispondevo: “un po' Maestro”. Perché era quello il momento in cui lui prendeva la chitarra e cominciava a suonare da solo... potete immaginare con quanto interesse lo ascoltavo in quelle ore tanto silenziose, che erano le preferite da Tárrega per dedicarsi completamente alla sua arte.
La prima cosa che impressionava, nell’ascoltare Tárrega mentre suonava, era il suo meraviglioso suono leggero, chiaro, preciso. Tutte le note avevano ognuna il proprio rilievo e ognuna occupava la sua collocazione appropriata.
Non esibiva trucchi, molto in uso tra i molti ciarlatani, per simulare strategie che niente hanno a che vedere con la musicalità. Più che suono di vihuela poteva compararsi col suono dell'arpa e molto dolce.
Proveniva, inizialmente, da una tecnica che il maestro aveva adattato per depurare il suono della chitarra fino a smaterializzarlo, dando ai polpastrelli la durezza necessaria per premere una corda sulla tastiera con la sua mano sinistra, dando con la destra l'impulso necessario, senza compromettere la vibrazione iniziale e velarla con l'unghia.
Come elaborò il Maestro questa tecnica? Ho detto prima che Tárrega quando si svegliava, ancora prima di aprire gli occhi, prendeva la sua chitarra a tentoni e, ancora a letto, cominciava a suonare.
Probabilmente era un impulso fisico irresistibile quello che, nonostante tutto, non poteva trattenere.
Immaginate che tanto era grande il desiderio che, quando stava un po' senza suonare, si sentiva nervoso e impaziente e quindi figuratevi quanto estenuante fosse per lui questa circostanza. E quando ebbe un attacco di emiplegia, con paralisi muscolare quasi completa che gli rendeva impossibile ogni movimento, il suo desiderio di suonare era così grande che recuperò grazie al paziente metodo che impiegò per tornare alla sua chitarra.

Bene, pareva essere, in certe occasioni, quando più assorto stava suonando... un movimento involontario della mano determinò la rottura di un'unghia che gli impedì di andare avanti.
Passò un giorno fastidiosissimo e il seguente, piuttosto che soccombere all'immobilità e al silenzio, nonostante il dito senza unghia, cominciò a fare esercizio e notò con sorpresa che proprio il dito senza unghia produceva un suono più puro di quello prodotto da quelli che invece l'avevano. E, dopo molte prove e cavillazioni, decise di tagliarsi le unghie, nonostante questo lo avrebbe portato, come infatti fu, a usare una tecnica differente, modificando le sue abitudini precedenti.
Io, che avevo ricevuto le lezioni da Tárrega, nelle tappe successive venni educata a eseguire in quest'ultima maniera; e per il resto della mia vita feci culto degli insegnamenti del mio Maestro perchè, oltre all'ammirazione per l'artista, ne avevo una venerazione quasi religiosa.
E' vero quando si è detto che Tárrega era un San Francesco d'Assisi della chitarra. Il suo carattere amabile e le sue frasi cortesi ...la sua attitudine di fronte all'umanità fu sempre di completo abbandono al prossimo.
Era solito portarmi con sé ai suoi concerti intimi. Non mi dimenticherò una volta che, presentandomi come sua piccola discepola a uno di questi incontri e chiedendomi di suonare, lo fece con l'emozione del maestro e non di chi sentiva suonare da un altro le sue composizioni. Alla fine il suo bacio sulla mia testa era bagnato da una lacrima di emozione.

Vi racconterei molte cose ... temo di essere pesante ... riassumerò queste mie povere parole.
Quando il Maestro andava a Barcellona mia madre e io lo seguivamo e continuavo con lui le mie lezioni. Anche quando veniva a Valencia seguivo i suoi insegnamenti e intanto manteneva la corrispondenza con mio padre e a me scriveva lettere di emozionante tenerezza. Queste lettere le ho donate al museo che Villarreal ha consacrato a Tárrega e lì penso di mandare altri suoi ricordi.

Vado a leggere una di queste lettere, che dice così:

“...27 marzo 1905.
Signorina Josefina Robledo, mia cara scolaretta, sono arrivato bene e sono qui, ricevuto affettuosamente. Preparo un concerto che darò a breve. Starò tutta questa settimana. Ti ricordo molto, accarezzando come mia abitudine la chitarra, e mi manchi.
La tua innocenza e applicazione hanno addolcito il mio stare a Valencia, oltre alle delicate attenzioni del tuo buonissimo padre e fratello che mai potrò ringraziare abbastanza. Porgigli la mia gratitudine dandogli tanti baci e continuando a essere buona e impegnata.
Non allontanarti dal mio metodo. Non c'è niente che nobilita più dello studio e del talento.
Ricordami a tuo padre e fratello e tu, figlia mia d'arte, ricevi un saluto sincero dal tuo maestro che tanto ti vuol bene.
Francisco Tárrega.”

Un brano da un'altra lettera:

“28 aprile 1905.
Cara Josefinita, mi rattrista sapere che sei malata. Vedi di scrivermi quattro righe per tranquillizzarmi. Curati molto e sappi quanto ti vuol bene il tuo maestro Tárrega. ......”

Dopo dovetti fare la mia presentazione al pubblico. Avevo eletto, come il Maestro, la chitarra come norma di vita.
Alcuni concerti mi portano in America. ... I miei trionfi indimenticabili, lì dove non si era mai sentita la chitarra; ... il mio ritorno in Spagna dove un lungo giro mi permise di conoscerla; ... il mio contratto col Nord America; ... il mio addio ad Alcoy, il mio matrimonio. Alla fine, tutta la mia vita dedicata a questa arte riempie la mia anima di ricordi.
Però io vorrei lasciarvene uno dei più emozionanti della mia vita, e che proprio per la sua semplicità, la mia anima conserva come il profumo di una candela profumata e la nostalgia di un intimo ricordo.

Una volta, per una riparazione sulla chitarra, mio marito e io ci recammo a Barcellona, dove si trovava il laboratorio di Garcia, dove era stato costruito lo strumento. Era il 1934.
Mio marito desiderava conoscere un grande artista, Apelles Mestres, la cui moglie Doña Laura aveva avuto relazioni di amicizia con la sua famiglia e per la cui arte aveva da sempre una grande ammirazione.
Apelles Mestres viveva nel centro di Barcellona. Per puro miracolo il Passatge Permanyer era un angolo silenzioso e eccezionale. Il grande disegnatore era già quasi cieco. Si rallegrò della visita e dopo i ricordi di tanti anni, dicendogli che io ero stata allieva di Tárrega, mi pregò di portare lì la chitarra perché voleva ascoltarmi. E quando lo strumento fu in condizione di suonare tornammo nella sua casa, in un pomeriggio di estate in cui le ortensie di Apelles Mestres, curate con premura dallo stesso artista, adornavano una sala interna che era stata uno studio in altri tempi e conservava, pulitissimi, gli utensili e i tavoli da lavoro che tanto erano serviti in passato.
Aveva già preparato una sedia, e il suo seggiolone era convenientemente disposto di fronte a quel mobile di altri tempi.

Cominciai a suonare Tárrega, Sor, Albeniz. Tutto suonava molto bene in quella stanza, come se ci fosse stato alle pareti qualcosa che fungesse da cassa di risonanza.
Era già sera quando terminò l'audizione. Mentre l'ultima nota stava ancora vibrando si fece silenzio, un silenzio angoscioso e interrogativo. Apelles Mestres, sempre nella stessa posizione, non disse niente. Passarono circa dieci minuti. Io e mio marito ci guardammo piuttosto sorpresi. Infine Mestres disse:
“Non ho voluto rompere l'incanto di un ricordo. Voglio solamente dirle, Josefina, che in quella stessa sedia, in questa stessa saletta, Tárrega ha suonato un'infinità di volte. E io da questo posto l'ho ascoltato sempre con l'incanto che lui sapeva infondere alla sua musica e le dirò, in suo elogio, che questo pomeriggio mi è sembrato come se lo stesso Tárrega fosse stato qui con noi”.
Se questo mi produsse una così profonda emozione, come potete supporre, me la aumentò sapere che Apelles Mestres era un amico intimo di Tárrega, di cui scrisse numerose pagine di elogio, e che tutti i mercoledì, immancabilmente, Tárrega andava a suonare in quella saletta, in una riunione privata dove si prolungava l'audizione a volte fino all'alba.
Avrete immaginato che se vi riferisco queste cose non è per fare un auto elogio improprio di me e del rispetto che devo alla memoria di Tárrega. Non è niente di più e niente di meno che la conseguenza di quello che io sono venuta a fare qui questo pomeriggio: a esaltare la memoria del mio Maestro. E per un allievo che ha consacrato tutta la sua vita a seguire senza esitazione gli insegnamenti ricevuti dal Maestro, con una dedizione assoluta, al di sopra di tutti gli omaggi, di tutte le distinzioni, stanno poche semplici parole di un amico di Tárrega, a cui in quel pomeriggio potei portare il ricordo del mio Maestro.

Josefina Robledo


(Il testo di questa conferenza è stato ricavato dall'unica registrazione esistente ed è stato tradotto a cura dei sigg.Alberto Berlato, Rita e Mimmo ai quali va tutta la nostra riconoscenza)

Queste sono le uniche registrazioni disponibili di Josefina Robledo; sono state registrate in occasione del concerto del 1959.

 
Josefina Robledo esegue Capricho Arabe di F. Tárrega

  Josefina Robledo esegue Lagrima di F. Tárrega
 
 
Josefina Robledo esegue Preludio n.2 di F. Tárrega

 
Josefina Robledo esegue Preludio n.1 di F. Tárrega
 
 
Josefina Robledo esegue Preludio n.3 di F. Tárrega


Questa trascrizione della famosa Marcia Funebre di F.Chopin è un esempio dell'attività di trascrittrice di Josefina Robledo